“Sono qui e voglio farti sentire il mondo quanto è grande”. Perché ogni anno riparte la scuola di italiano di Liberi Nantes
Sono le 07.35. Generalmente sono appena salita sulla metro, un orario di punta, un orario affollato di persone che si spostano da un luogo all’altro di Roma.
Ascolto spesso le conversazioni degli studenti, chi è in ritardo, chi non ha studiato, chi è innamorato, chi entra in seconda, chi si sente abbastanza preparato per il compito in classe, chi non ha preparato la ricerca perché Netflix/playstation/calcetto, chi ha preso già troppe note e preferirebbe fare qualsiasi altra cosa piuttosto che andare a scuola. Sorrido quasi sempre pensando alla prima volta che feci sega (o marinai la scuola, per i lettori extraromani), anche se il carattere della maestrina torna subito prepotentemente e se fossi una docente della scuola dell’obbligo userei a tal punto la penna rossa e il registro di classe da finire rinchiusa nello sgabuzzino delle scope alla prima occasione, vittima di atroci angherie.
La buona notizia è che non sono una docente della scuola dell’obbligo.
L’altra notizia è che senza scuola non sarei saputa stare. Che nella formazione ci credo parecchio, ma ancora di più credo nell’insegnamento reciproco, nella condivisione di saperi, nella conoscenza come bene collettivo, che l’intelligenza di un singolo ha senso solo se messa in relazione con le capacità degli altri.
Un po’ come la storia della felicità che è reale solo se condivisa.
Insegnare italiano agli studenti stranieri, diventare una docente di L2/Ls mi è quindi parsa una buona idea, una di quelle idee che improvvisamente ti allargano la vita.
Perché tra gli studenti di varie lingue e nazionalità ai quali avrei potuto insegnare ho scelto quel settore particolarissimo degli studenti migranti che transitano nel nostro Paese per qualche anno, qualche mese, oppure che scelgono l’Italia come meta finale di un viaggio iniziato lontano. Lontano come il Corno d’Africa, lontano come la Siria, lontano come il Kurdistan, lontano come il Venezuela. Che io a sentire loro mi sento sempre così poco cosmopolita, con la mia vita ben radicata su Roma, mentre gli studenti della scuola di italiano hanno attraverso continenti. Mi sento sempre così poco coraggiosa, con le mie preoccupazioni quotidiane – la spesa, le scadenze a lavoro, il traffico romano – mentre gli studenti della scuola di italiano raccontano della loro notte più scura, quella della fuga, o quella delle violenze, o quella della perdita di tutto, della scomparsa della famiglia, della solitudine e del silenzio. Che poi non è che hanno tutta questa voglia di raccontare, forse perché hanno capito che i loro racconti non trovano le parole, nella nostra lingua, per trasmettere l’altrui sofferenza. O forse perché sono stanchi di esser narrati da altri. È la loro storia e vorrebbero trovare le parole per dirsi. Alcuni di loro vengono a scuola anche per questo, per dire “sono qui e voglio farti sentire il mondo quanto è grande”.
Non tutti: molti vorrebbero anche solo parlare un po’ di italiano per trovare lavoro e condurre una vita dignitosa. Per alzarsi la mattina come molti romani alle 07.00, prendere la metro alle 07.30 e incontrare gli altri studenti o lavoratori che stanno iniziando la loro giornata. Fare, vorrebbero tanto fare.
Fossi stata imprenditrice allora avrei provato a veder di lavorare insieme. Ma invece sono una docente, costruisco con le parole, senza mattoni.
Da quelle iniziamo per costruire nuovi destini, ognuno cercando le parole per dirsi.
Martina Volpe